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IL CANTO


Il canto era un lugubre lamento, trascinato dal vento oltre le cime innevate dei monti. Un dolore nuovo e insieme antico sbocciava in un cuore di donna.
«Mio marito mi tradisce: ho le prove».
«Tutte noi abbiamo le prove, o l'intuizione, o ancora la certezza che un tradimento sia o sia stato perpetrato ai nostri danni. Rassegnati: ogni uomo, prima o poi, tradisce la moglie. Devi soltanto attendere che gli passi l'infatuazione». La sorella era stata logica nell'argomentazione, implacabile nell'enunciazione dei fatti, e sottomessa.
«Non intendo rassegnarmi,» affermò la donna. «La passività non è una virtù, bensì l'assenza del coraggio di difendere le proprie convinzioni».
«Cosa intendi fare?».
«Non lo so ancora con certezza. Subire senza un lamento, però, non rientra nei miei piani».
La sorella taceva, fissandola in fondo agli occhi neri, incupiti dalla sofferenza. Ammirava la sua determinazione e, in un certo senso, la invidiava: desiderava proclamare la propria dignità, a qualsiasi costo, in seno ad una società dominata dagli uomini, fornita di leggi, usi e costumi che determinavano un ruolo subordinato e marginale per le donne. Lei non ne sarebbe stata capace. «Tocca a te decidere» asserì, infine.
La donna le posò una mano sul braccio, in un gesto d'affetto che le era abituale. «So cosa fare».

Il canto era un sibilo potente, che alimentava se stesso fino ad infiltrarsi tra i rami spogli di alberi imponenti, infuriando dall'alba al tramonto. Desiderio di vendetta e sgomento, rimpianto e determinazione turbinavano al suo interno, mescolandosi in un caotico groviglio di sensazioni e sentimenti.

L'invocazione, evocata dalla sofferenza che dimorava stabilmente nel cuore della donna, sorse dalle sue labbra. Le ginocchia, tormentate dalle punte aguzze dei ciottoli e lambite dall'acqua che correva impetuosa verso il mare, le dolevano. Ignorò il disagio, e ripeté l'invocazione più e più volte, finché divenne un suono indistinto e pressoché privo di significato. L'iterazione, a volte, equivale a un'ingiunzione. «O Regina delle acque, o Signora della Casa delle Donne, o Patrona del mio sesso negletto, ascolta la mia preghiera. Una donna tradita, umiliata e impossibilitata ad ottenere giustizia per mezzo delle leggi degli uomini, invoca Te, o Potente Acihuat, affinché il traditore riceva la giusta punizione per la colpa che ha commesso. Ti imploro, o Somma tra tutte le donne, Tu che dimori nel Regno delle Ombre pur essendo immortale, Tu che tutto puoi, ascolta la mia preghiera».
Quella stessa notte, mentre dormiva accanto al fedifrago, la Dea del fiume visitò la donna che tanto a lungo l'aveva invocata. «Intendo esaudire la tua accorata preghiera,» asserì la Regina delle Acque. «Sappi, però, che la punizione che infliggo ai traditori è una e una soltanto: la morte. Desideri che tuo marito muoia?».
«Sì» rispose la donna. Nessuna esitazione si avvertì nel suo tono risoluto, sebbene il suo cuore tremasse, diviso tra speranza e paura.

Il canto era un incalzare di note furenti, eccitate e confuse, un boato immane, colmo di discordia e disperazione. Recava con sé il pianto di due diverse specie femminili: la donna e la Dea. La vendetta, denominata convenzionalmente punizione, era in procinto di venire attuata: si avvertiva la sua eco rimbombare nel pianto, nel dolore, nell'odio che scaturisce da un amore profondo, ferito a morte dalla fiducia mal riposta.
L'alba tingeva il cielo di un rossore vago, ancorché cupo come sangue.
La donna pose una ciotola colma di latte fresco davanti al marito. Sedette, e cominciò a consumare la colazione.
L'uomo, con gli occhi fissi sulla ciotola, affermò «Devo farti una confessione, moglie».
«Di' pure» lo esortò la donna.
«Ho avuto una breve storia con una comune amica,» asserì. «Ora, però, è tutto finito. Mi sono pentito e te ne chiedo perdono». Il tono era afflitto, il volto mesto, l'accento sincero. L'uomo allungò una mano a carezzare il volto della moglie.
Le ombre del rimorso affiorarono a ghermire il cuore della donna. Desiderò di non aver evocato la vendetta, provocando la collera della Signora delle Signore, la Dea che dimora in fondo al fiume. Mentre era intenta ad invocare Acihuat affinché risparmiasse la vita del marito, volle restare accanto a lui, accompagnando i suoi passi.
Il canto del fiume, soave ma ingannevole sussurro che prometteva letizia e felicità, allettò l'uomo. Il suo piede scivolò lungo l'argine pietroso, attratto dal canto. L'acqua tumultuosa catturò il fedifrago, trascinandolo con sé in un gorgo colossale, depositandolo sul fondo del fiume. Invano la donna tese la mano, desiderosa di salvarlo dalla sua stessa malvagità.
La risata beffarda di una Dea impietosa la raggiunse, appropriandosi anche di lei. Il fiume, cantando giulivo, accolse le due figure umane.

Il canto era armonia di forme, assonanza di sensazioni, sublime melodia innalzata fino al cielo. Nato in sordina, si espanse fino ad invadere l'atmosfera, si infranse nell'acqua in un crescendo di inaudita potenza, frantumandosi infine in una miriade di onde che si rincorrevano, gioiose e gioconde. Le carpe danzavano al ritmo del canto.
«Il mondo della terra e il mondo dell'acqua sono contigui, separati da un confine tenue come una nota isolata. Anche l'amore e l'odio sono confinanti, divisi da un sottile sipario chiamato fiducia reciproca. Quando il sipario viene strappato, l'uno confluisce nell'altro, e la confusione regna sovrana nei cuori e nelle menti».
La Carpa Dorata compì un balzo prodigioso, gettandosi a capofitto in mezzo all'impetuosa cascata che correva a valle.
Le due carpe la seguirono, l'una a destra e l'altra a sinistra, inoltrandosi nelle acque agitate dal vento. Fino a pochi istanti prima erano stati un uomo e una donna.
La donna aveva condannato a morte l'uomo per mezzo di un'invocazione sconsiderata, ma era stata a sua volta condannata a morte dalla Signora del Fiume.
Un Dio più potente di Acihuat, tuttavia, dimorava in quelle acque. Fin dall'alba dei tempi, aveva preso a cuore la sorte degli uomini, sacrificando se stesso per salvarli: quando il consesso degli dei aveva deliberato lo sterminio degli esseri umani, si era tramutato in un'enorme carpa e, allo stesso tempo, aveva trasformato la gente in carpe più piccole per poterle guidare e, all'occorrenza, soccorrere.
«Non temi di essere arpionato dai pescatori?» chiese la carpa che era stata una donna.
«È un timore che non condivido con i membri del mio popolo: soltanto gli iniziati, i puri di cuore, possono scorgermi in mezzo ai flutti. Per tutti gli altri sono invisibile».
I bagliori emanati dalle scaglie arancio-dorate si fusero con lo splendore della luce solare, e la superficie del fiume rifulse di increspature scintillanti, brillando come oro fuso.
«Perché hai rinunciato alla gloria del cielo?» domandò la carpa che era stata un uomo.
«La gloria è poca cosa se paragonata al bene più prezioso dell'intero universo: l'amore. Amo la mia gente, e la mia gente ama me. E il sapore dell'amore è molto più dolce di quello del nettare degli dei».
A confermare l'asserzione appena pronunciata, con enfasi e convinzione estrema, dalla Carpa Dorata, il fiume intonò un canto d'amore. Mille cuori gli fecero eco.



IL SALVATORE


“Fatemi portare un'altra porzione di arrosto di cinghiale”.
“Subito, mio signore”.
Mi sono sistemato bene: il cibo è ottimo e abbondante; un'ala del castello è stata riservata a me; inoltre, i servitori, orchestrati da madamigella, obbediscono senza indugio ai miei ordini e soddisfano tutte le mie necessità.

Per non stare sempre in ozio, ogni mattina faccio un giretto di perlustrazione: devo pur dimostrare che svolgo il mio lavoro con competenza e buona volontà. Non si tratta di un lavoro faticoso, al contrario: percorro le campagne padronali, scambiando quattro chiacchiere con i contadini che sudano sotto il sole, poi mi inoltro nel bosco e, una volta lì, schiaccio un pisolino ristoratore.
Esibendo l'occhio vigile e il portamento fiero propri della mia condizione sociale, faccio ritorno al castello, e riferisco di pericoli inimmaginabili, disastri incombenti, oppure mostri dai mille tentacoli pronti a ghermire madamigella che si aggirano nei dintorni del feudo.

*****


“Cosa avete scoperto nel corso della vostra perlustrazione mattutina, mio cavaliere?”.
“Un uomo che, armi in pugno, stava tentando di penetrare nelle vostre terre. Con l'ausilio della mia fedele spada, però, l'ho messo in fuga".
“Ve ne sono molto grata, o valente paladino. Gradite qualcosa da mangiare?”.
“Certamente, madamigella. Tre porzioni di arrosto, un po' di cacciagione, qualche focaccia al miele e una torta di castagne”.
Lo sopporto da quasi sei mesi, ormai, e sono arrivata al limite della pazienza: è arrogante, presuntuoso, maleducato, bugiardo e stupido. Inoltre, ho il forte sospetto che come cavaliere errante non valga granché.
Crede che sia una povera sciocca, invece ho capito fin troppo bene il suo gioco. Con il pretesto di proteggermi da pericoli inesistenti, si è assicurato vitto e alloggio gratuiti; consuma tre pasti al giorno, spadroneggia sui miei servitori e tiene me in suo potere.
Non sono più padrona nel mio stesso castello: le passeggiate per i boschi, le chiacchiere con le contadine, le uscite sugli spalti non sono che un lontano ricordo. Mi impedisce di fare ciò che desidero adducendo la scusa che potrebbe essere pericoloso per la mia incolumità.
Sono davvero stufa: è come se avessi preso marito. O forse il sedicente cavaliere mira proprio a sposarmi?

*****


“La vostra vita è in pericolo, madamigella. Ve l'ho ripetuto tante volte: solo all'interno del castello potete ritenervi al sicuro. Rientrate immediatamente oppure sarò costretto a ricorrere alle maniere forti”.
Dunque, siamo giunti a questo punto: spintoni e minacce. Piuttosto che a un cavaliere, assomiglia a un carceriere.
Approfittando del fatto che lui, avendo scolato due fiaschi del mio miglior vino, dormiva saporitamente, ero uscita a prendere una boccata d'aria sugli spalti. Un rumore improvviso, però, l'ha svegliato, e si è accorto della mia assenza.
In tono grave, ha annunciato “Mi avete disobbedito, pertanto meritate una punizione: rimarrete confinata nei vostri appartamenti fin quando lo riterrò opportuno”. Ero spaventata, e non ho avuto il coraggio di reagire.
Non soltanto gestisce il mio feudo e la mia vita a suo piacimento, ma non ha mai fatto il minimo accenno ad un'eventuale partenza, né parlato di una famiglia, un feudatario o un re che attenda il suo ritorno, in un qualsiasi luogo del vasto mondo. Vorrei che lasciasse il mio castello per non tornarvi mai più.
Chissà cosa sta facendo in questo momento. La sua occupazione prevalente, quando non saccheggia la dispensa o la cantina, è dormire. Tuttavia, non può ronfare con questo rumore di sottofondo.
Non avevo mai udito prima un simile boato: un tuono lontano che pare divenire sempre più forte, profondo, insistente. Credo che si stia avvicinando al castello, che incomba su di noi a poco a poco.
Ecco che sopraggiunge un sibilo, chiaro e prolungato, intermittente come il vento che fischia tra i rami in una notte di tempesta. Il cielo, tuttavia, è limpido: posso scorgerne l'azzurro intenso che, attraverso la grata che ricopre la finestra, forma sei pozze di luce sul pavimento ricoperto di paglia secca.
D'un tratto, un tremito scuote le fondamenta del castello: sono costretta ad appoggiarmi al baldacchino per evitare di cadere. Avverto una seconda scossa, ancora più potente di quella precedente.
Questa volta il pericolo è reale. Sarà in grado di affrontarlo, il cavaliere rammollito dagli ozi?

*****


“Spero di non avervi spaventato, madamigella”.
In piedi sugli spalti, converso con il mio salvatore.
“Solo un po'”, rispondo.
“Ve ne domando perdono. Temo, però, che fosse indispensabile”.
Annuisco, comprensiva. Lo osservo con attenzione: è immenso, più alto del castello, verde oliva, con una cresta frastagliata sul dorso, il muso allungato e gli occhi rossi. È un drago, il mio salvatore.
“Credevo che voi draghi non aveste il dono della parola”, osservo.
“L'abbiamo, invece. Purtroppo, è raro che le persone si fermino a parlare con noi: sono troppo occupate a scappare a gambe levate”.
“Oppure ad eliminarvi”, aggiungo.
Un enorme occhio rosso mi fissa con espressione amichevole. “Ditemi, madamigella: in tutta franchezza, ritenete che i cavaliere erranti siano migliori di noi?”.
Osservo il mucchietto di latta contorta, che ospita i resti inceneriti del cavaliere che mi ha tiranneggiato per mesi con il pretesto di proteggermi, accanto al ponte levatoio. “Se somigliano a lui, non di certo”, rispondo.
La bocca del drago si spalanca in un sorriso.